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È sufficiente applicare RPA ai processi aziendali per innovare? No, serve BPM.

Perchè l’implementazione di un progetto RPA senza una strategia BPM potrebbe fallire. 

Quando l’IT è chiamato a gestire i sistemi informativi di un’azienda, e parliamo soprattutto di una fascia Enterprise, viene messo di fronte a tre driver di miglioramento:

  • la digitalizzazione, per emancipare i processi dai supporti fisici e renderli misurabili
  • l’automazione, per alleviare il carico del lavoro manuale e ridurre i costi
  • la standardizzazione, per emendarli sempre più da errori con garanzie di conformità

Oggi assistiamo sempre di più all’utilizzo della RPA (Robotic Process Automation) nei processi aziendali: l’IT assegna a questi agenti software autonomi il compito di mettere a fattor comune le informazioni utilizzate nelle varie applicazioni, indirizzandole correttamente verso i servizi, allo scopo di semplificare e standardizzare i processi e ridurre il carico di lavoro sui dipendenti.

Una recente ricerca di IT Pro ridimensiona le previsioni fatte da Gartner nel 2021, secondo cui entro la fine del 2023 il 72% delle organizzazioni avrebbe iniziato a utilizzare la RPA. Solo il 40% dei responsabili IT ha dichiarato di avere progetti in corso, a volte solo su piccola scala (ad es. limitato al reparto finanziario).

RPA può e deve essere utilizzato per facilitare i processi di integrazione IT, ma i dati alla mano suggeriscono che il suo potenziale non è pienamente compreso, altrimenti la sua adozione sarebbe su larga scala. Secondo la mia esperienza, il motivo è uno solo e lo riassumo con una frase di Bill Gates:

«La prima regola di ogni tecnologia usata negli affari è che l’automazione applicata a un’operazione efficiente ne ingrandirà l’efficienza. La seconda è che l’automazione applicata a un’operazione inefficiente ne ingrandirà l’inefficienza».

Automatizzare un processo inefficiente lo renderà solo più veloce. Il riconoscimento all’IT per un’implementazione RPA di successo è legato alla comprensione del processo che si va ad automatizzare. E qui entra in gioco il Business Process Management, che è una disciplina che combina l’IT con le metodologie di governance.

Il Business Process Management è un prerequisito

I tre pilastri del Business Process Management (BPM) sono tecnologia, persone e processi. In WEGG li mettiamo in quest’ordine:

Come già sapete, i processi sono un modo standardizzato per convertire input in output che un cliente (sia esso una figura interna o esterna che richiede o consuma servizi) possa trovare utile. Il driver per definire se un processo aziendale – inteso come un insieme di attività che possono coinvolgere più funzioni aziendali – è adatto allo scopo è la sua utilità in relazione al cliente. E la tecnologia è il modo che permette di raggiungere più velocemente lo scopo.

L’utilità per un cliente che richiede un servizio, ad esempio, è legata alla facilità con cui riesce a fare la richiesta e ai tempi di attesa per l’evasione della stessa. Ma se un processo è inefficiente (ad esempio l’invio dei moduli di richiesta a funzioni aziendali diverse per un output che richiederebbe la loro collaborazione, colli di bottiglia in caso di approvazioni non definite, mancanza di indicatori che monitorano le prestazioni ecc.), la tecnologia non può far altro che replicare queste ridondanze e inefficienze.

RPA potrebbe quindi andare a integrare sistemi ed eseguire operazioni automatiche su dati strutturati e non strutturati (es. documenti cartacei scannerizzati, immagini, video ecc.) per rendere più veloci i processi senza che il cliente ne percepisca il beneficio.

Gli step BPM prima di implementare RPA

Nel guidare le iniziative di trasformazione digitale, RPA rientra all’interno del Business Process Management quando si arriva alla fase di execution e di implementazione della tecnologia.

RPA automatizza un insieme specifico di attività, ma a monte deve esserci una riflessione che determina quali attività automatizzare e le fasi necessarie per eliminare e consolidare tali attività. Il BPM tradizionalmente richiede agli esperti di processo di creare diagrammi di processo osservando e intervistando le persone coinvolte: è la parte di Process Mapping (ne ho parlato in maniera approfondita qui).

Questi diagrammi sono la base per la modellazione dei processi aziendali: un processo viene documentato sotto forma di modello di attività (descrizione dei compiti, flussi di dati ecc.) e attraverso l’analisi vengono identificati flussi tortuosi e poco razionali, continui passaggi tra reparti e interfacce.

La simulazione di questi modelli – comportamenti, sistemi, scenari what-if, porta a ridisegnarli nella loro versione migliore, quella più semplice e diretta, che comporta meno sforzo e gli indicatori che ne definiscono la rispondenza alle aspettative.

Solo a questo punto possiamo pensare di inserire RPA: quando abbiamo ben chiara la nostra versione migliore di processo. BPM e RPA sono complementari, a patto che BPM rientri nella strategia di automazione dei processi digitali. 

La tecnologia inoltre dà un vantaggio aggiuntivo in termini di visibilità e controllo: affidare a dei software il compito di monitorare la sequenza delle fasi di processo, il loro costo, la frequenza con cui vengono eseguite e con cui si producono errori permette di individuare le aree di ottimizzazione per migliorare il beneficio percepito dal cliente.

Questo ci permetterebbe di pensare in grande scala: possiamo utilizzare RPA non solo per automatizzare azioni semplici, meccaniche e basate su regole ma anche per automatizzare le attività basate sulle decisioni grazie alla possibilità di avere informazioni sui processi. Da RPA arriviamo al concetto di IPA (Intelligent Process Automation), che è la chiave per un’azienda per diventare sempre più competitiva.

Articolo a firma di Francesco Clabot, CTO di WEGG e docente di ITSM all’Università di Padova

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